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Tamerisco XIV

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XIV

Piero conosce il commissario. Tante bugie divertenti.

 

“Pronto?”

“Parlo col commissario Tango?”

“Si, chi è lei?”

Una voce squillante quasi mi costrinse ad allontanare il cellulare dall’orecchio.

“Sono un amico di Pietro. Mi ha dato qualcosa da consegnarle.”

“E’ il signor Cretini? Pietro mi ha parlato di lei. Non ricordo il suo nome.” 

Tutti per motivi anche troppo ovvii si ricordavano del mio cognome.

“Piero, mi chiamo Piero”

“Bene Piero, vediamoci al più presto. Quando ti è possibile?”

“Diciamo oggi nel primo pomeriggio, alle sedici e trenta, al bar davanti alla biblioteca comunale”.

“Non va bene: là ti conoscono tutti. Sai dove si trova il bar Aurora? Ci vediamo alle sedici. Arrivederci”.

Questa breve telefonata fu fatta nella toelette della biblioteca, tenendo d’occhio la porta, che nessuno entrasse o stesse lì a origliare. Era una vera Spy story quella che mi accingevo a vivere con una certa eccitazione e notevole preoccupazione. Non amo il rischio, e se devo correre un pericolo è perché proprio non posso farne a meno. Sono convinto che gli stress accorciano la vita. Per questo motivo amo l’ozio, il tempo che passa vissuto minuto per minuto, assaporato in ogni istante, in ogni piccolo evento che si mostra per scomparire immediatamente lasciando una labile traccia. Solo a causa della nostra imperdonabile, profonda superficialità il tempo ci passa accanto senza che noi ci avvediamo di esso, senza avvertire il suo tocco di pendolo lieve, intriso del dolce sapore della vita. Tuttavia non mi è sconosciuto lo stress più potente: la Noia. Da bambino ero malato di noia: i giochi, lo studio, le gite con i genitori erano un annoiato tormento. Nella maturità non ne ricordo un momento, nemmeno in certi salotti, in certe compagnie dove piuttosto che la noia mi pervade il sonno.

Quel pomeriggio non feci altro che controllare l’orologio. 

Guarda caso Adelina mi chiese di uscire con lei per negozi. Addussi la scusa che andavo a casa a riposare, perché quella notte non avevo dormito a causa del caldo, ma mi pentii subito, considerando che i negozi da lei più frequentati erano proprio attorno all’Aurora. Cosa avrebbe pensato se mi avesse visto seduto al bar con Tango? Forse che me la facevo con lui, che ero affetto da quella devianza che avevo attribuito a lei. Mi veniva da ridere al pensiero che potesse avere quel sospetto, mentre io mi tormentavo a causa delle sue sedute di posa con Gina.

 Il bar Aurora si trova nel cuore della zona pedonale, in Via Petrarca, la strada più elegante della città. Le sue sale in stile liberty sono gremite al mattino di giovani donne che fanno colazione. Al pomeriggio sono frequentate principalmente dagli studenti del liceo. Arrivai puntuale, quel pomeriggio le bianche poltroncine in paglia erano deserte; Tango, seduto al tavolo accanto al bancone, mi accolse con un cenno di saluto. Il viso lungo, sovrastato da una folta capigliatura di riccioli castani, gli occhi rotondi, neri dietro due piccole lenti cerchiate d’acciaio, inquieti e intelligenti, gli conferivano l’aspetto dell’ideologo di un movimento extraparlamentare di sinistra, piuttosto che di un poliziotto. 

“ Fa caldo fuori, non sei ancora andato in ferie?”

“ Sono appena stato assunto e credo che ci andrò a Dicembre, se va bene”

Ordinai una malvasia, sfilai dalla tasca la lettera di Pietro e gliela porsi.

La rigirò pensieroso tra le dita.

“ Stai lontano da questa faccenda. Stai lontano da Pietro e da Susanna. E tienine lontano la tua ragazza.”

Manco a farlo apposta, proprio in quel momento, mi risuonò una voce molto, troppo familiare.

“ Ciao, non dovresti essere in casa a riposare?”

Adelina, con un’amica, Lucia, che non conoscevo ma di cui mi aveva parlato spesso, era entrata nel bar puntando direttamente al nostro tavolo.

Imbarazzatissimo, presentai loro il commissario. 

“ Il celebre commissario Tango!” Disse Lucia, assidua lettrice di cronaca nera. Nei grandi occhi celesti, smarriti nella lattescenza del viso dove si attardavano le efelidi dell’adolescenza, la sorpresa e l’ammirazione facevano a gara a contendersi il campo. Mentre Lucia sottoponeva Tango a un interrogatorio serrato, degno di un commissariato di polizia, Adelina mi lanciava occhiate dense di interrogativi ed io le sorridevo un po’ preoccupato, un po’ divertito a vederla rigirarsi sulla graticola della curiosità. 

Quando ci incamminammo verso casa, mi domandava da quanto tempo conoscessi Tango, come l’avevo incontrato. Ed io davo risposte evasive e generiche, tra lo svagato e il reticente. 

“ Mah, è stato uno o due anni fa.”

“ Come mai non mi hai parlato di lui, siete molto amici?”

“ Beh, non proprio amici, diciamo che lo conosco”

“ Lo conosci, ma come lo conosci, vi frequentate?”

“ Ma no! Non ci frequentiamo, ci frequentavamo un tempo. Qualche volta siamo usciti insieme, nella stessa compagnia”

“ Te lo hanno presentato?”

Mi piaceva raccontare storie fantasiose e assurde. E più erano assurde più Adelina le credeva vere. Mi piaceva vederla pendere dalle mie labbra, con gli occhi fermi e un’espressione meravigliata e seria sul visino.

“ Era successo che nel palazzo in cui abitavo fu ammazzato il mio vicino di casa. Un commerciante di pelli. L’avevano sgozzato dopo averlo legato a una sedia, avergli tosato la testa e bruciato le dita con la sigaretta”

“ Chissà che dolore, avrà urlato. Tu eri in casa? E non hai sentito niente?”

“ Non ha urlato perché era imbavagliato. Ho sentito soltanto dei passi su per le scale. Anzi, quando ho aperto la porta per uscire da casa ho visto in faccia l’assassino che usciva pure lui.”

“ Davvero!”

“ Per questo mi portarono al commissariato e mi interrogarono per più di un’ora “

“ Ti ha interrogato Tango?”

“ Si, proprio lui. Non ti dico la fatica a disegnare: voleva che gli facessi il viso dell’assassino”

“ Ma va! Di solito c’è il disegnatore”

“Non c’era alcun disegnatore!”

“ Ti sei messo a disegnare! Non ci credo”

“ Davvero, n’è uscito un casino. Tre giorni dopo mi chiamarono al commissariato e mi rinchiusero in una stanza, mostrandomi attraverso un vetro sette uomini che stavano in piedi a far niente. Loro non potevano vedermi, per fortuna. Poi è entrato Tango e mi ha chiesto se riconoscevo l’assassino. Una bella responsabilità!”

“ E tu l’hai riconosciuto?”

“ Chi?” 

“L’assassino, l’hai riconosciuto?”

“Quale assassino…” Mi fingevo distratto

“Non fare il cretino!” 

Mi veniva da ridere “Ah, l’assassino! non era tra quelli”

Eravamo arrivati al portone di casa. Adelina voleva concludere ed io non avevo un finale plausibile.

“E come è andata a finire?”

“A finire cosa?”

 “Ma quanto sei pesante!”

“Beh, dopo una settimana un fabbricante di borsette si costituì confessando di avere torturato e ucciso il mio vicino di casa perché era convinto di essere stato truffato. Asseriva che gli aveva venduto a caro prezzo della pelle scadente” Il viso di Adelina esprimeva delusione per la banalità di quel finale.

“Dopo aver confessato ha dato un pugno a Tango, che ne porta ancora i segni sul naso, e si è buttato dalla finestra”

“E’ morto?”

“Si, è morto. Si è fracassato il cranio. Io ero là proprio in quel momento. Ho visto tutto il cervello sparso per terra”

“Che schifo!” Questa volta pareva soddisfatta del finale raccapricciante per cui era valsa la pena di ascoltare la storia.

A letto si stringeva a me, grata del brivido di orrore che le avevo procurato. Io pensavo alla raccomandazione di Tango di tenerla all’oscuro di tutto.

“Oggi non ti ecciti? Guardami il sedere, così ti ecciti. Accarezzalo!” Diceva, voltandosi di schiena. “Non hanno mai sospettato che potessi essere tu l’assassino?” 

“Non so, può darsi” 

“Dopo che siete diventati amici, non gli hai domandato?”

“Veramente no” Rispondevo accarezzandole le natiche bianche e sode.

 “Glielo chiedo io” 

“Quando glielo chiedi?”

 “Usciremo insieme qualche volta! Però è strano che non me lo hai fatto conoscere”

“Come? Te l’ho presentato poco fa!”

“Perché ti ho trovato con lui. Ero offesa, sai. Ho pensato che non volevi uscire con me, che trovavi la scusa che eri stanco, e poi ti incontravi con lui! Magari c’era una storia, di quelle tra uomini…” Ecco ci siamo, pensai, lo sapevo che sarebbe andata a finire così. Le mani erano scivolate lungo le cosce e il desiderio si era impossessato di me con quel calore dolcemente animale che nasce dal profondo. Fui contento di farglielo sentire turgido sulla vagina. Era una prova, la conferma che dissipava ogni dubbio sulla mia virilità.

Finito l’amore, lei riposava tranquilla, mentre io leggevo, come di consueto, il mio Gozzano. Dopo l’amore mi piaceva leggere a voce alta “La signorina Felicita” che era sempre posata sul comodino, pronta e disponibile nella sua pagina a mezzo libro, piena di malinconica dolcezza. Le prime volte Adelina mi ascoltava sorpresa e divertita. Poi quel rito, divenuto usuale e ripetitivo, le conciliava il sonno. A me serviva, non so perché, a neutralizzare la tensione accumulata nelle lunghe pratiche erotiche, che l’orgasmo non riusciva a scaricare del tutto.

Pensavo che dormisse, invece mi si abbarbicò alla schiena puntando i gomiti aguzzi sulle costole.

“Tu mi racconti un sacco di balle” 

“Quali balle?”

 “ Il tuo vicino ammazzato, l’interrogatorio, l’identikit. Un mare di balle.”

“ Non è vero, è tutto vero!”

“ Sei un imbroglione, un bugiardo. E io scema che quasi ti credevo!”

“ Ma è la verità!” insistei ridendo. Lei mi graffiò le spalle. Con un colpo di reni mi girai di scatto e le diedi un morso su un gluteo: non proprio un morso, un quasi morso, un bacio-morso. Lei mi infisse i dentini aguzzi di squalo in un polpaccio. Lanciai un urlo accentuando il dolore, implorando mia madre. 

“ Questa me la paghi!” Esclamai afferrandola per il busto con l’intento di ripetere la morsicatura. Ma lei si svincolò mostrandomi le unghie, tutta arruffata come una gatta.

“ Allora, adesso voglio sapere tutta la verità! Come lo hai conosciuto?” 

“Conosciuto chi?”

“ Se fai lo stupido, vado via subito e ti lascio per sempre”

“ E va bene, l’ho conosciuto a una festa. Sai? Quelle feste per soli uomini: ci si immerge in una vasca d’olio e poi si entra tutti nudi in una stanza buia…” 

“ Che scemo! Dimmi la verità o mi vesto e  vado via. E non ci vediamo più.” Meditavo che prima o poi le avrei dovuto raccontare tutto, tanto più che ormai ero uscito da quel pasticcio. Così le raccontai dell’incontro con Pietro alla stazione, di Maria Pergamena, di Tango. Le raccontai perfino della conoscenza dello zio di Tango che avevo scambiato per un malavitoso. 

Mi raccomandai di mantenere assolutamente il segreto e lei giurò incrociando le dita. Adelina ascoltava con la serietà di una bambina giudiziosa, in ginocchio sul letto. Mentalmente la confrontavo con la statuina di Gina e mi dicevo che era somigliantissima ma Gina non aveva colto la sua anima di tigre ammansita. Pensavo che era quella la differenza tra la creazione artistica e il prodotto artigianale: per quanto somigliante al vero: nella prima c’era l’anima.

Mi venne nostalgia delle gite con Guido per chiese, musei e palazzi antichi, alla ricerca dell’anima delle cose.



 

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